Galassie

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È nascere di nuovo, ritornare
l’ombra degli ulivi resta
fra una domanda e l’altra
il senso della meta
è credere ai rimedi più lontani

Non è più tempo
ma ora sono qui, pianta di sangue
La pioggia ha una sua voce
in questa riva a parte
racconta l’avvenire
soltanto se non smette

Le ore s’inginocchiano
scorrono a metà, manca il finale
il patto è un fotogramma
non domandarsi mai
come sarebbe stato

Graffia anche l’aria, si affila nelle vene
andando via
granitica discende nei polmoni e dice no
non puoi morire più
ma non ascolto mai

Sono galassie dentro, certi volti
attese irrinunciabili
timoni d’ancoraggio in mare aperto
il sacro dato al mondo
che non tradiamo mai

marina minet

Pendolari

I monitor riflettono l’orario delle corse
ultima fermata la modernità
I pendolari leggono su facebook
la civiltà dei selfie
mentre una bambina parla in sogno

Prevede monete questa sosta
il sale sulla carne e l’olio alle verdure
come a casa
La dieta è alla parola
lungo la statale dell’addio
siamo ancora qui

Linee di accessori nelle tasche
dicono di noi chi siamo
il senso è un giorno muto alla tv
o un libro come viaggio di ritorno

Non ho mai creduto agli ascensori
ai passi che cercano le strade senza buche
né ai treni più veloci dello sguardo
che scordano il paesaggio

Credo alla fatica, invece, ai fiori dei passanti
al rosso dei semafori che cambiano colore
al dubbio che s’insinua a notte fonda
mentre il vento spinge
nelle profondità delle domande

Ieri un cinghiale mi è venuto incontro
quasi con sospetto
I denti sembravano silenzi
e la paura non era bella, no
ma ha spinto su i polpacci

Preghiera

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Prima che sia giorno devo finire una preghiera
pesare le parole una per una e darle in mano a Dio
come richiesta altissima

Devo finirla senza nessuna boria
con tutta l’umiltà che posso offrire
limandola in bellezza come un salmo
perché sia già un ascolto

Forse devo includere il mio amore, chi è solo, i viaggi dei bambini
chi ha steso i panni al buio e non potrà tornare presto a casa
perché l’amore è un’arte che sa spartire il tempo
curando in ogni cosa il suo valore

Difficile è comporla e farci entrare tutti
senza trascurare chi ha bisogno
difficile ignorare quel perdono
per chi dopo la guerra ha colto un fiore
pensando di curarlo anche domani
difficile è dirla di nascosto, sapere che il silenzio è della croce

Bisogno

Ho bisogno d’esser niente
un’altra luce illumina l’ignoto
ciò che nella forma è un libro chiuso
mai letto da nessuno
una radice appesa, senza terra
in cerca di stagioni

Verrai a disperdermi se ancora sarò niente
resisterò all’invito delle mie abitudini
per scomparire in te    e poi sarò la gente
di fronte al tuo mancare
l’antico pianto arreso che mai chiede
e mentre le cadute mi fermeranno il passo
vivrò dentro i tuoi sandali

Ho bisogno d’esser niente
come la costola di una colomba
cintura d’ogni volo che ritorna
brughiera indifferente in pasto al vento
uguale all’acqua che disseta e che ignora
e delle bocche non conosce la parola

Se tu, Narciso

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Se tu, Narciso, cadessi un giorno
chi tenderebbe la mano sul tuo volto
dura è la pietra nel sentiero
battuto dalle fughe
l’ombra delle ancelle si è strappata
e non ha più stoffa nei vestiti
come l’artigiano vecchio che ha scolpito il sole
loro ci credevano alla luna
eppure aspettano il mattino
come i poveri aspettano la manna

Le grondaie misurano la pioggia
ne ascoltano il frastuono
si accertano che il numero dei giorni
sia preciso, scandito
che l’alba torni buia
piangendo il suono triste dei tamburi
dietro a un carro
e sanno che a gennaio
il gelo le consuma, più freddo
che il grano tornerà
sbiadendole di luce inviperita
seppure non avranno di che bere
legate taciturne intorno ai tetti

Se tu, Narciso, vedessi
guardassi le guerre nascoste alle tue spalle
se solo posassi il tuo bagaglio
su un treno rivolto a un’altra estate
allora saprai che lontano
la ruota delle corse è sempre uguale
null’altro
fiorente e sciupata negli anni

 

 

Come si ricorda una madre

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Come si ricorda una madre.
Il mio cuore è una pausa di fermate senza treni
o forse è a casa, quasi illeso
diroccato come un sasso sulla rupe
dove una radice si è spezzata

E se anche le comete hanno lasciato il cielo
come si ricorda una madre
se rimane ancora, fiato di presenza
e Il suo nome è una vigna mai appassita

Solitario è il dolore
annidato in una ciocca di capelli
dalle sembianze care agli angeli
adesso tutti in festa per la sua comparsa
si ricamano il grembiule del mattino

Questo è il varco muto, il mistero dell’attesa
da qui a lì
e da lì a qui
c’è il paesaggio sconosciuto cui si crede
senza che la tela lo disponga

Come si ricorda una madre se nel cercarla la distanza è buia
e se il suo andare a noi non si rivolge
per una parola attenta, cordiale, battente,
gradita come i frutti acquosi della primavera

Come si ricorda una madre.
Bianca è la colomba del trapasso
uno scudo nel petto la protegge
perché il suo volo sia l’impegno
aiutato da mani attente, prive di quei lividi
che solo all’uomo devono il colore

Come si ricorda una madre se la fortuna dorme al suo via andare
se il lenzuolo non riscalderà più il sole domani né poi
col profumo gioioso e sincero
che di lei catturava la forma 

Giungere al finale

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In certi istanti, dov’è la sola umanità
a renderci chi siamo
diamo il congedo a tempi lontani
devoti al nostro sangue
e a tutto ciò che resta nel mistero.
Cosa sappiamo dell’innocenza
del corpo arreso sotto la daga
guardando le piaghe degli altri
come rivoli di pioggia noi perforiamo i sassi
prima che la pena sia compiuta
e che la mano tenda il suo conforto.

Sotto il passo le strade sono sorde
scorrono difese mentre il colpo incede, fugaci
come le nubi che partono di sera
quando ciò che è perso non è che una condanna
scritta dalle mani che più amiamo.
Ma gli occhi sono giare nel dolore
si colmano d’amaro fino a traboccare
e ciò che ci soccorre è solo una preghiera
il canto più agguerrito della croce.

Quanto vorrei che il tempo non sfinisse
che un pianto fosse più di una parola
che il vento nel soffiare curasse le mancanze
portandole a un rimedio
che il rosso delle guancie sia simile a una gioia
per regalarla a chi non la comprende
e a chi l’ha allontanata dalla schiena.

Care mi sono le bestie da spavento
e i passeri d’inverno feriti sotto i tetti
perché anche loro sperano l’elisio
gli arbusti cavi e i tubi delle fonti
che mi hanno dissetato
sorelle le ragioni di buone verità
fratelli tutti i cuori
e i semi che sfioriti concimano la terra
dolci e sacre madri tutte le pazienze
ora che aspetto non so cosa
donando ogni perdono
e sento il mio respiro quasi fosse un’ombra
un volo spalancato sulla cima, giungere al finale.

a mia Madre

Domani

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Cosa sogneremo domani
quando lo spavento diventerà una storia
trascritta come un gesto già compiuto
da raccontare antica come il pane.
Cosa penseremo
benedicendo il grano sui gradini
mentre i tralci dell’uva già raccolta
cadranno sbiaditi sotto i passi.
Cosa seguiremo domani
senza le vesciche della corsa
senza la sabbia incollata alle infradito
senza una preghiera segnata in calendario
da recintare gioia tutt’insieme.
Cosa guarderemo domani
maturi come le parole
un treno sempre in sosta sui binari
per tante scarpinate da confidare al cielo.
Eravamo ciechi proprio ieri
con gli alberi a ridosso
la bocca sudata dall’amore
e il grido dei bambini nelle piazze.
Cosa conteremo domani, mio Dio
le schiene distese sulla terra
e miglia di zattere per file già sommerse
ora che a stento sonnecchiamo
chiudendo le finestre in faccia all’altro
in una guerra che tutti ci perdona.

(#Restiamo a casa)

21 aprile 2020

Pioggia ferma

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passa accanto il tempo
indomabile risuona
Il boato delle tempie
al suo bruciare

quale fresca occasione finirà ancora
cenere vissuta
quale sguardo mi batterà sul petto
questa coscienza in lotta

virili stagioni cadranno nonostante
come pioggia ferma sulle guance
in nome del risorto
in nome di delitti
ormai santificati

tempo buono
non passare mai oltre il mio dare
dove il niente mi potrà impaurire
a mani piene

Il mare di quegli anni

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Il mare di quegli anni
spuntava fra le dune sceso il giorno
e l’aspro dei ginepri impallidiva
macchiandosi al fermento anche le vene
dei rami più taglienti.
La trebbia azzurra ci sommergeva i piedi
gonfiandosi la brezza
mentre finiva il colpo del suo cuore
sulle schiene.
Grinzoso senza età
era la storia, il mare di quegli anni
su quella costa di reti insanguinate
la parola si pescava come niente-
labile e sincera colpiva tramortendo
come la risacca che rende sempre all’onda
l’ abisso del suo sguardo.
Non l’ho più incontrato il mare di quegli anni
né atteso come allora, superstite d’inverno
ubriaco del suo mirto fra le pietraie antiche
madrine d’ogni figlio

Quando un giorno

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Quando un giorno verrete alla mia tomba
non bussate come solita è la gente
accendete la presenza col silenzio
mormorando un perdono controvento
fra le gore delle siepi.
Fischiettando, rallegrerete i marmi
con l’olio della lampada sul capo
versato a goccia piena, d’abbondanza
per rischiarare il tempo già accaduto.
Quando verrete allora alla mia tomba
cingetevi di lino i bei pensieri, e i sandali
che siano vecchi e sporchi
saranno loro a raccontarmi i vostri viaggi
flettendosi sull’erba come giunchi.
E quando verrete tristi alla mia tomba
portatemi gli affanni come dono
saprò tagliarne il peggio limando le preghiere
lacrime anche a foci per questi fiori chiusi
il grigio dei capelli raccolti dai guanciali
e ciò che fra le tasche v’importuna

Sepolcri imbiancati – Matteo 23

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Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:  «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei.  Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno.  Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito.  Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange;  amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe  e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente.  Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli.  E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo.  E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo.  Il più grande tra voi sia vostro servo;  chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi.
Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l’oro del tempio si è obbligati. Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l’oro o il tempio che rende sacro l’oro?  E dite ancora: Se si giura per l’altare non vale, ma se si giura per l’offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta?  Ebbene, chi giura per l’altare, giura per l’altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso. Continua a leggere

Per ogni suono vano

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Nutrite le parole
preparate una culla per ogni sillaba
una cuccia per ogni pensiero
il lenzuolo e le federe buone
col pallore dei ricami di marzo.
Amate le parole, vi è un Dio fra loro
e a ogni dire cammina sui crinali
dall’alto di un silenzio benedetto

Lui sorge come la perla dentro l’ostrica
come un soldato che sguaina la pietà
come il dente di latte intorno al pane
e mentre sorge ascolta
ascolta e avanza marciando su crinali
distesi come rughe millenarie
e le sue ossa sono spine per ogni suono vano
e grandine vivace di novembre

Marina Minet, Scritti d’inverno

LucaniArt Magazine

Dal nuovo libro “Scritti d’inverno” di Marina Minet pubblicato a cura del Premio Taranto, la poesia vincitrice della IX edizione 2015 (sezione poesia).

Guardando l’orizzonte

Io non so com’eri ieri
terra che fai male, come un lutto.
Se uguale ad ora ti specchiavi nelle pozze
scavando le voci delle vecchie
per renderle infantili come un tempo
quando al buio anche i santi pregavano a rovescio
e i piedi sulla strada sfidavano le scarpe

Terra d’avara confusione, chi pregherà con te
vuotando i battisteri fino al grembo
non c’è nessuno a ungere le falci tra i covoni
per frammentare il grano a spigoli di sogni
il tanto di invecchiare la gioia e le stagioni

Maria che è nata qui
ti serve di nascosto ogni mattina
temendo la salita con il gelo
e chiede due monete per le uova e i soliti boccacci
voltandomi le spalle un po’ dubbiosa
per non mostrare…

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“Delle madri” di Marina Minet, vince -La forza dei sentimenti 2016

LucaniArt Magazine

Untitled.jpgAlla 4^ Edizione del Premio di Poesia, Narrativa e Testi per una Canzone “La forza dei sentimenti” 2016, per la sezione poesia a tema “La forza dei sentimenti” è risultato I^ classificato il libro edito “Delle madri” di Marina Minet, stampato nel 2015 a tiratura limitata a cura dall’Associazione “L’Arca Felice” di Salerno.

“Delle madri” libro edito di Marina Minet –1° Posto
Poesia dallo stile maturo ed elegante, trasudante senso di profonda sacralità del sentimento materno, interpretato non solo come atto di inestinguibile sacrificio carnale, fatica fisica, ma anche come eredità di una propria esperienza, di parole e ricordi che forgiano e completano i figli, frutto di grembo e cuore. Le madri scavate come statue dal tempo e dalle pene, ma mai sottomesse a questi fattori. – Carmela Gabriele

(motivazione del premio La forza dei sentimenti, 8 ottobre 2016)

La cerimonia di premiazione si è tenuta a Roma sabato 8 Ottobre 2016…

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Robert Antelme – La specie umana

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1960s, Bocca Di Magra, Italy --- French Writer Marguerite Duras --- Image by © Collection Jean Mascolo/Sygma/Corbis

1960s, Bocca Di Magra, Italy — French Writer Marguerite Duras — Image by © Collection Jean Mascolo/Sygma/Corbis

Mare blu dovunque anche sotto i nostri occhi, niente onde ma una risacca infinitamente dolce, respiro di un sonno profondo. Gli altri hanno smesso di giocare, si sono sdraiati sopra gli asciugamani stesi sulla sabbia. Lui è alzato, è andato verso il mare. Anch’io son andata vicino all’acqua. L’ho guardato. Ha visto che lo guardavo. Strizzava gli occhi dietro le lenti e mi sorrideva, scuoteva appena la testa, come scherzasse. Sapevo che sapeva. Sapeva che a ogni ora del giorno io pensavo: “non è morto nel campo di concentramento”

(da “Il Dolore” di Marguerite Duras)

La specie umana, di Robert Antelme (frammento)

Non capite che è continuare la resistenza? Cosi rattristate tutti quanti, accidenti!
Quello che parla cosi, è lui pure divorato dalla fame. È alto e grosso, e le ossa sembrano bucargli la faccia.
Si chiama Jo. Un quarto di pagnotta e poi niente altro che brodaglia da mettere in quell’immenso stomaco. Sta divorando se stesso.
Appena arrivati qui, la maggior parte riusciva a pensare ad altro che non fosse la fame. Ormai siamo entrati in una specie di sonnambulismo. Una massa invecchiata spinta in avanti di tappa in tappa: dalla zuppa all’officina, dall’officina al pane, dal pane al pagliericcio. E sempre il crampo allo stomaco vuoto, le mascelle immobili, il peso delle proprie ossa. I denti restano bianchi. Pronto a mangiare quello che gli si dà, l’apparecchio resta legato e fermo, come la macchina vuota che non si muove più. Si slegherà solo morendo. Alla sera, prima di coricarsi, capita che un uomo si aggiri nei pressi della cucina. Nemmeno lui sa cosa aspetta. Va in cortile solo per essere più vicino alla cucina. Forse qualcuno uscirà, e il tipo in un momento di follia arriverà anche a chiedergli qualche cosa da mangiare. È naturale chiedere a un cuoco se non ha un pezzo di pane. Ma l’altro invece lo guarderà come si guarda un pazzo. Il grosso, il più sazio, colui che non ha fame, conosce tuttavia il valore del pane; sa cosa vale per l’affamato, e attribuisce al suo lo stesso valore; costa perciò e non è facile darne un pezzo. Cosi, colui che ha fame e chiede da mangiare a quello che di fame non ne ha, è un pazzo, visto che il cibo – anche se se ne è pieni e ci si lavora in mezzo – è raro e deve essere conquistato per « meriti» (anche laggiù, del resto, i soldi sono considerati da quelli che li hanno come « meritati »).
Se un Kapò uscendo dalla cucina vedrà l’uomo, gli chiederà cosa fa H. L’altro non risponderà. Nonostante tutto non ce la farà a dire al Kapò che ha fame. Il Kapò allora lo prenderà per il collo della giacca e lo spingerà nella chiesa dove, a testa bassa, il tipo si avvierà verso il suo pagliericcio. Non ci sono soluzioni.
Non è che soffra. No, nessun dolore. Solo il vuoto allo stomaco, in bocca, tra le mascelle che si aprono e chiudono sul niente, sull’aria che gli entra dentro.
I denti masticano aria e saliva. Il corpo è vuoto.
Solo aria in bocca, in pancia nelle gambe e nelle braccia che si svuotano.
Cerca un peso per lo stomaco, per mantenere il corpo attaccato al suolo;
cosi è troppo leggero per restarci.
Non dobbiamo fermarci davanti a questo muro. Non bisogna parlarne. La fame non è altro che uno dei tanti mezzi delle SS. Rivoltarcisi contro sarebbe vano, come buttarsi contro il filo spinato, il freddo. La fame deforma la faccia, fa sporgere gli occhi. Il viso di Jacques, lo studente di medicina, non è pili lo stesso che abbiamo conosciuto arrivando qui.
È incavato, tagliato da due rughe profonde, con un naso appuntito come quello dei morti. Nessuno a casa sua immagina le stranezze che questa faccia poteva occultare. Laggiù guardano sempre la stessa fotografia, che non è più di nessuno. I compagni dicono: – Non possono sapere, – e pensano agli innocenti di laggiù con i loro visi immutati che vivono in un mondo di abbondanza e solidità, con delle pene compiute, che ci sembrano anche quelle di un incredibile lusso.
Ci si trasforma. La faccia e il corpo vanno alla deriva, qui non esistono più né belli né brutti. Fra tre mesi, saremo ancora diversi e sempre meno ci distingueremo gli uni dagli altri. Tuttavia, ognuno di noi continuerà a conservare una sua sia pur vaga idea di individualità. E poiché qui non è possibile realizzarla minimamente questa individualità, ci si potrebbe qualche volta credere fuori dalla vita, in una specie di vacanza orribile. Eppure è una vita, la nostra vera vita, non ne abbiamo nessun’altra da vivere. Visto che è cosi, che milioni di uomini con i loro sistemi vogliono che cosi si viva e che altri l’accettino. Qui si compiono e si interrompono realmente i singoli destini. È ben questa l’ultima visione di quelli che muoiono qui; e già, è da questa vita che noi prendiamo tutto il materiale per pensare, non dall’altra, dalla « vera » . Bisogna dunque lottare, anche per non lasciarci coprire dall’anonimato, per non smettere di esigere da sé quello che non si pretende da un altro. Si scopre che anche noi possiamo lasciarci andare, come non ci sarebbe stato possibile immaginare prima. Jacques, che è prigioniero dal ’40, che ha il corpo pieno di foruncoli che marciscono, che non ha detto mai né mai dirà « sono stufo », che sa che se non cercherà di arrangiarsi per mangiare un po’ di più morirà prima della fine, che già cammina come un fantasma di ossa, che spaventa perfino i compagni (lo vediamo come l’immagine di quello che anche noi saremo presto), che non ha mai voluto né mai vorrà fare il minimo traffico con un Kapò per mangiare, che i Kapò e i medici odieranno sempre di più perché è sempre più magro e il suo sangue marcisce, Jacques è colui che nelle religioni verrebbe chiamato un santo. Ma laggiù non è un santo che aspettano, è Jacques il figlio, il fidanzato. Non sanno. Se ritornerà, avranno del rispetto per lui « per ciò che ha sofferto, per quello che tutti hanno sofferto ». Cercheranno di recuperarlo e di farne un marito.
Vi sono tipi invece che saranno rispettati laggiù, mentre a noi sono diventati odiosi, ancora più dei nostri peggiori nemici. Ma ci sono anche quelli dai quali non ci si aspettava niente, la cui esistenza laggiù era quella dell’uomo senza storia, mentre qui si sono dimostrati eroici. È qui che avremo conosciuto la stimabilità più assoluta e il più definitivo disprezzo.
L’amore dell’uomo e l’orrore per lui, nella pili totale certezza che mai sia stata possibile altrove.
Le SS che ci confondono non riusciranno mai a fare in modo che noi ci si confonda. Non possono impedirci di scegliere. Qui, anzi, la necessità di scegliere è senza misura accresciuta e costante. Più ci si trasforma, più ci si allontana da laggiù, più la SS ci pensa ridotti a una indistinzione, a una irresponsabilità di cui noi mostriamo l’apparenza incontestabile; più la nostra comunità contiene di fatto delle distinzioni, più queste diventano rigorose. Il prigioniero dei campi non ha affatto abolito le differenze. Le ha anzi realizzate concretamente. Se si andasse a trovare una SS e gli si mostrasse Jacques, gli si potrebbe dire: « Guardatelo, voi avete ridotto quest’uomo giallastro e marcio, quello che deve assomigliare di più a ciò che voi pensate egli debba essere naturalmente: un rifiuto, un relitto e ci siete riusciti. Ebbene, noi vi diremo quello che dovrebbe annichilirvi se ” l’orrore ” potesse ammazzare: voi gli avete dato la possibilità di diventare l’uomo più completo, più sicuro delle sue possibilità, delle sue risorse, della sua coscienza e dell’importanza delle sue azioni; il più forte. Non perché gli infelici sono i più forti e nemmeno perché il tempo lavora per noi. Ma perché Jacques finirà di correre i rischi che voi gli fate correre, perché voi cesserete di esercitare il potere che esercitate e infine perché ci è già possibile dare una risposta alla domanda: se c’è mai stato un momento in cui avete vinto; con Jacques non avete vinto mai. Volevate che rubasse, non ha rubato. Volevate che leccasse il culo ai Kapò per poter mangiare, non l’ha fatto.
Volevate che ridesse mentre un Meister allungava colpi a un compagno, non ha riso. Volevate soprattutto portarlo a dubitare, a chiedersi se ci fosse una causa per cui valesse la pena di decomporsi cosi, non ha mai dubitato. Voi gioite davanti a questo rottame che a stento si tiene in piedi davanti ai vostri occhi, ma siete voi i derubati, i marci fino alle midolla. A voi si mostrano solo i foruncoli, le piaghe, i crani grigi, la lebbra e voi non credete che alla lebbra. Sprofondate sempre più, “Jawohl! Avevamo ragione, Jawohl, alles scheisse!” La vostra coscienza è tranquilla. “Avevamo ragione, basta guardarli”. Voi siete stati ingannati come nessuno lo è stato di più, e da noi che vi portiamo fino in fondo al vostro errore. Non vi disinganneremo siatene certi, vi si porterà fino al limite estremo della vostra enormità. Ci lasceremo condurre fino alla morte e voi vedrete solo vermi che crepano.
« Non aspettiamo la liberazione dei corpi e nemmeno la loro resurrezione per avere ragione; è adesso, che siamo vivi come dei rifiuti, che le nostre ragioni trionfano. (…) »

Robert Antelme

Introduzione di Alberto Cavaglion
Nota di Hermann Langbein
Traduzione di Ginetta Vittorini

Titolo originale L ‘espèce humaine
1957 Librairie Gallimard, Paris
1969 e 1997 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Prima edizione « Supercoralli» l 969
ISBN 88-06-12953-8

Corpi

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Escher, Relatività

Escher, Relatività

Sotto questa terra scorderemo i corpi
l’attenzione fragile dei ciechi
la distrazione insonne, le feste, le frasi e gli spaventi
l’iride sbiancata, il ridere insensato, la sete e la viltà
l’osare delle unghie e la tristezza
ché i corpi sono niente, al gelo come al sole
risacca fra le ossa, i corpi sono niente

Come restare, legare il fiato sospiro e poi cantarlo
indenne al duro amare
sui davanzali di spinosi gigli e di alberi cremisi.
Come trovare il cielo, l’impronta degli agnelli
e il manto celestiale, seduti accanto ai debiti bugiardi.
Come svegliare il passo, la tenebra e i profumi
i gesti e l’innocenza
strappati come fiori ai modi dell’inverno

L’incolumità delle cose, attese prosciugate all’indolore:
deserti, colline, nuraghi, coltelli
sciacalli, dirupi e mura antiche.
Invidia ai sassi, ai grappoli trebbiati
ai ceppi taciturni nei camini
e ai marmi senza carni e senza vermi
così prudentemente sordi al mietere del tempo