Preghiera

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Prima che sia giorno devo finire una preghiera
pesare le parole una per una e darle in mano a Dio
come richiesta altissima

Devo finirla senza nessuna boria
con tutta l’umiltà che posso offrire
limandola in bellezza come un salmo
perché sia già un ascolto

Forse devo includere il mio amore, chi è solo, i viaggi dei bambini
chi ha steso i panni al buio e non potrà tornare presto a casa
perché l’amore è un’arte che sa spartire il tempo
curando in ogni cosa il suo valore

Difficile è comporla e farci entrare tutti
senza trascurare chi ha bisogno
difficile ignorare quel perdono
per chi dopo la guerra ha colto un fiore
pensando di curarlo anche domani
difficile è dirla di nascosto, sapere che il silenzio è della croce

 

Bisogno

Ho bisogno d’esser niente
un’altra luce illumina l’ignoto
ciò che nella forma è un libro chiuso
mai letto da nessuno
una radice appesa, senza terra
in cerca di stagioni

Verrai a disperdermi se ancora sarò niente
resisterò all’invito delle mie abitudini
per scomparire in te    e poi sarò la gente
di fronte al tuo mancare
l’antico pianto arreso che mai chiede
e mentre le cadute mi fermeranno il passo
vivrò dentro i tuoi sandali

Ho bisogno d’esser niente
come la costola di una colomba
cintura d’ogni volo che ritorna
brughiera indifferente in pasto al vento
uguale all’acqua che disseta e che ignora
e delle bocche non conosce la parola

Lista

Ad esserci una meta, il sonno del mattino
una mano ansiosa sulla fronte
i carri della trebbia e la giornata rossa
del vino benedetto
la fila delle schiene sulle scale
in marcia per la messa.
Ad esserci, bambina, ancora speranza
le foglie capovolte e poi novembre
che gira la sua pioggia sulle tombe.
Le impronte di un gabbiano
una conchiglia rotta
la pigna che trasuda, mio padre
la caccia dei pinoli da pestare
e lente le onde che soffiano il tramonto
freddando la sabbia sotto l’ombra.
Ad esserci, mia madre, la luce
l’avvento, la voce della festa
i dolci nella corbula e il sangue alle ginocchia
i sogni, le nocche nel rosario, rosate
e l’aspro dei limoni per la torta.
Ad esserci domani, il freddo, l’attesa
il santo sul comò come tesoro
e noi disposti, segnando Gesù
zittiti solamente dal suo nome.
Ad esserci, un chissà, Virgilio per Dante
su pagine ingiallite, la ragione.
Lo schioppo del carbone e una promessa
il fegato a brandelli dentro al piatto
la febbre calata, e già ci si alza, a tremore passato
il sugo intinto ai polsi, il neon impazzito
e il dente conservato nel cotone.
Ad esserci, noi tutti.

Il porto

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Prima d’ogni viaggio cerco l’altro Agnello
le mete dei suoi occhi tracciano il mistero
che ovunque può condurre
dove l’umiltà spalanca le prigioni
e accoglie il passo guasto quale pia fortuna

Prima di ogni quiete io cerco il pane madre
il volto scritto che impallidì la croce
bendandosi d’attesa
in fondo a una pianura senza impronte

L’oracolo del senno a noi abituale è un rigo appena
un labbro lamentoso in calce al vento
perché le sue ferite nessuno può contarle
né perderle alle bocche degli ingiusti

Prima del riposo, dell’argine più oscuro
Io cerco il FiglioPadre;
come unica risposta ascolto le sue piaghe
mentre il tempo scende, finito
e pari a un compimento è questa voce
che al dire sdenta i mari
sfamandone anche i pesci e il loro argento

 

                                                                     

 

                                                                     

Se tu, Narciso

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Se tu, Narciso, cadessi un giorno
chi tenderebbe la mano sul tuo volto
dura è la pietra nel sentiero
battuto dalle fughe
l’ombra delle ancelle si è strappata
e non ha più stoffa nei vestiti
come l’artigiano vecchio che ha scolpito il sole
loro ci credevano alla luna
eppure aspettano il mattino
come i poveri aspettano la manna

Le grondaie misurano la pioggia
ne ascoltano il frastuono
si accertano che il numero dei giorni
sia preciso, scandito
che l’alba torni buia
piangendo il suono triste dei tamburi
dietro a un carro
e sanno che a gennaio
il gelo le consuma, più freddo
che il grano tornerà
sbiadendole di luce inviperita
seppure non avranno di che bere
legate taciturne intorno ai tetti

Se tu, Narciso, vedessi
guardassi le guerre nascoste alle tue spalle
se solo posassi il tuo bagaglio
su un treno rivolto a un’altra estate
allora saprai che lontano
la ruota delle corse è sempre uguale
null’altro
fiorente e sciupata negli anni

 

 

Come si ricorda una madre

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Come si ricorda una madre.
Il mio cuore è una pausa di fermate senza treni
o forse è a casa, quasi illeso
diroccato come un sasso sulla rupe
dove una radice si è spezzata

E se anche le comete hanno lasciato il cielo
come si ricorda una madre
se rimane ancora, fiato di presenza
e Il suo nome è una vigna mai appassita

Solitario è il dolore
annidato in una ciocca di capelli
dalle sembianze care agli angeli
adesso tutti in festa per la sua comparsa
si ricamano il grembiule del mattino

Questo è il varco muto, il mistero dell’attesa
da qui a lì
e da lì a qui
c’è il paesaggio sconosciuto cui si crede
senza che la tela lo disponga

Come si ricorda una madre se nel cercarla la distanza è buia
e se il suo andare a noi non si rivolge
per una parola attenta, cordiale, battente,
gradita come i frutti acquosi della primavera

Come si ricorda una madre.
Bianca è la colomba del trapasso
uno scudo nel petto la protegge
perché il suo volo sia l’impegno
aiutato da mani attente, prive di quei lividi
che solo all’uomo devono il colore

Come si ricorda una madre se la fortuna dorme al suo via andare
se il lenzuolo non riscalderà più il sole domani né poi
col profumo gioioso e sincero
che di lei catturava la forma 

Giungere al finale

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In certi istanti, dov’è la sola umanità
a renderci chi siamo
diamo il congedo a tempi lontani
devoti al nostro sangue
e a tutto ciò che resta nel mistero.
Cosa sappiamo dell’innocenza
del corpo arreso sotto la daga
guardando le piaghe degli altri
come rivoli di pioggia noi perforiamo i sassi
prima che la pena sia compiuta
e che la mano tenda il suo conforto.

Sotto il passo le strade sono sorde
scorrono difese mentre il colpo incede, fugaci
come le nubi che partono di sera
quando ciò che è perso non è che una condanna
scritta dalle mani che più amiamo.
Ma gli occhi sono giare nel dolore
si colmano d’amaro fino a traboccare
e ciò che ci soccorre è solo una preghiera
il canto più agguerrito della croce.

Quanto vorrei che il tempo non sfinisse
che un pianto fosse più di una parola
che il vento nel soffiare curasse le mancanze
portandole a un rimedio
che il rosso delle guancie sia simile a una gioia
per regalarla a chi non la comprende
e a chi l’ha allontanata dalla schiena.

Care mi sono le bestie da spavento
e i passeri d’inverno feriti sotto i tetti
perché anche loro sperano l’elisio
gli arbusti cavi e i tubi delle fonti
che mi hanno dissetato
sorelle le ragioni di buone verità
fratelli tutti i cuori
e i semi che sfioriti concimano la terra
dolci e sacre madri tutte le pazienze
ora che aspetto non so cosa
donando ogni perdono
e sento il mio respiro quasi fosse un’ombra
un volo spalancato sulla cima, giungere al finale.

a mia Madre

Fazzoletti

Non conoscono il dolore i fazzoletti
e domani indifferenti
conteranno appena qualche volto
numeri, congedi:
il raccoglimento estraneo senza peso
che è reliquia dell’amore.

Nessuna condanna, assoluzione
giunge loro quando madri tremano per screzi
sul corollario delle mattine sfatte
per cui ogni figlio non tarda a rincasare
e si dispiace per le vene già svezzate

Compassione ai fazzoletti.
Raccontate come prova il sentimento
di certe notti scure
sbiancate sotto le barche dei profughi africani.
Dei torsi magri dei militi bambini
e di ogni spiffero che fugge dalle tombe
per fiutare il grembo ancora un altro giorno.

Raccontategli dei ghetti di Varsavia
della fame mai saziata di Anna Frank
del suo treno che non è tornato indietro
delle viscere versate sopra i carri, come mosche
e dei denti spulciati sui banconi.

Raccontategli di Willy, della festa dei suoi occhi
del suo viaggio fermo al dubbio dell’inverno
delle origini straniere che imprigionano le strade
e di un cuore fatto a pezzi sotto un calcio.

Raccontate di ogni nome, della buona umanità
dei sentieri che hanno atteso una preghiera
della zappa che per caso sprofonda nella terra
e di Dio che ci perdona tutti.

Quanto è incerto il transito che ci farfuglia il sole
le lande del tramonto presto ci attraversano mostruose
prima che la meta sia per noi
di nuovo una parola

Domani

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Cosa sogneremo domani
quando lo spavento diventerà una storia
trascritta come un gesto già compiuto
da raccontare antica come il pane.
Cosa penseremo
benedicendo il grano sui gradini
mentre i tralci dell’uva già raccolta
cadranno sbiaditi sotto i passi.
Cosa seguiremo domani
senza le vesciche della corsa
senza la sabbia incollata alle infradito
senza una preghiera segnata in calendario
da recintare gioia tutt’insieme.
Cosa guarderemo domani
maturi come le parole
un treno sempre in sosta sui binari
per tante scarpinate da confidare al cielo.
Eravamo ciechi proprio ieri
con gli alberi a ridosso
la bocca sudata dall’amore
e il grido dei bambini nelle piazze.
Cosa conteremo domani, mio Dio
le schiene distese sulla terra
e miglia di zattere per file già sommerse
ora che a stento sonnecchiamo
chiudendo le finestre in faccia all’altro
in una guerra che tutti ci perdona.

(#Restiamo a casa)

21 aprile 2020

Non so morire adesso di Marina Minet

LucaniArt Magazine

3-Oceanische-Landschaft Paul Klee

Non so morire adesso
non saprei dirlo ma il tempo non è buono
mi mancano gli abbracci da recintare al vento
quelli che ho perso hanno lasciato un solco
un seno dentro che non so riempire
né perdere di nuovo.
Non so morire
non so partire imperfetta
promessa alla rinuncia
ho in serbo i sogni eletti da mio padre
parole certe bruciate nei deserti
da stendere sui fiumi della mia terra cara
e gesti da piantare sopra il ventre
per rivangare tutte le intenzioni.
Non so morire adesso
mancano altre croci per le mie ginocchia
un santo come amico e una missione
luci in discesa e strade di salita
sassi affilati per inciampare ancora
e tutte quelle scosse che sanno farmi piangere
per volgere la pelle allo stupore.
Non so morire adesso
non so comprendere la morte di mattina
col sole vivo indosso come un corpo
e conto…

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Perché non sia vana la luce

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Coglili i fiori
ne spunteranno nuovi alle stagioni
sopra i campi libici deserti
oltre le contrade della sorte
che percorriamo muti.
Piega la schiena e coglili
bagnandoti le guance di fatica
si gonfieranno nudi sotto i polsi
vivaci, smaniosi di colori
di strade governate di giustizia.
Cogline tanti, quanto la misura di un impegno
finché ne curerai gli esordi
finché saprai che potrai farne dono
parola in un silenzio dirompente
disposto ad ascoltare.
Di che borbotterà la terra
se li raccoglierai
di che si lagnerà fiorita
come potrà seccarli chiusi
senza una ragione.
E i gigli che devono il profumo alla purezza
matureranno bianchi anche sotto il fango
finché l’eternità sarà capita
al pari di una vecchina ingenua.
Torneranno sempre i fiori
squarceranno l’aria come uno tsunami
aprendo le radici a braccia tese
seppure a tratti l’aridità li spezzi
seppure a volte, lo sterco delle bestie li divori
seppure a giorni dispiacciano anche i cieli.
Torneranno
come i nostri passi sui crepacci
illusi a filo di strapiombi
perché non sia vana la luce
la cenere che li sveglierà
nel tempo che per grazia
frammenta e poi solleva.

Pioggia ferma

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passa accanto il tempo
indomabile risuona
Il boato delle tempie
al suo bruciare

quale fresca occasione finirà ancora
cenere vissuta
quale sguardo mi batterà sul petto
questa coscienza in lotta

virili stagioni cadranno nonostante
come pioggia ferma sulle guance
in nome del risorto
in nome di delitti
ormai santificati

tempo buono
non passare mai oltre il mio dare
dove il niente mi potrà impaurire
a mani piene

Il mare di quegli anni

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Il mare di quegli anni
spuntava fra le dune sceso il giorno
e l’aspro dei ginepri impallidiva
macchiandosi al fermento anche le vene
dei rami più taglienti.
La trebbia azzurra ci sommergeva i piedi
gonfiandosi la brezza
mentre finiva il colpo del suo cuore
sulle schiene.
Grinzoso senza età
era la storia, il mare di quegli anni
su quella costa di reti insanguinate
la parola si pescava come niente-
labile e sincera colpiva tramortendo
come la risacca che rende sempre all’onda
l’ abisso del suo sguardo.
Non l’ho più incontrato il mare di quegli anni
né atteso come allora, superstite d’inverno
ubriaco del suo mirto fra le pietraie antiche
madrine d’ogni figlio

Quando un giorno

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Quando un giorno verrete alla mia tomba
non bussate come solita è la gente
accendete la presenza col silenzio
mormorando un perdono controvento
fra le gore delle siepi.
Fischiettando, rallegrerete i marmi
con l’olio della lampada sul capo
versato a goccia piena, d’abbondanza
per rischiarare il tempo già accaduto.
Quando verrete allora alla mia tomba
cingetevi di lino i bei pensieri, e i sandali
che siano vecchi e sporchi
saranno loro a raccontarmi i vostri viaggi
flettendosi sull’erba come giunchi.
E quando verrete tristi alla mia tomba
portatemi gli affanni come dono
saprò tagliarne il peggio limando le preghiere
lacrime anche a foci per questi fiori chiusi
il grigio dei capelli raccolti dai guanciali
e ciò che fra le tasche v’importuna

Sepolcri imbiancati – Matteo 23

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Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:  «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei.  Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno.  Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito.  Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange;  amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe  e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente.  Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli.  E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo.  E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo.  Il più grande tra voi sia vostro servo;  chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi.
Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l’oro del tempio si è obbligati. Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l’oro o il tempio che rende sacro l’oro?  E dite ancora: Se si giura per l’altare non vale, ma se si giura per l’offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta?  Ebbene, chi giura per l’altare, giura per l’altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso. Continua a leggere

Per ogni suono vano

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Nutrite le parole
preparate una culla per ogni sillaba
una cuccia per ogni pensiero
il lenzuolo e le federe buone
col pallore dei ricami di marzo.
Amate le parole, vi è un Dio fra loro
e a ogni dire cammina sui crinali
dall’alto di un silenzio benedetto

Lui sorge come la perla dentro l’ostrica
come un soldato che sguaina la pietà
come il dente di latte intorno al pane
e mentre sorge ascolta
ascolta e avanza marciando su crinali
distesi come rughe millenarie
e le sue ossa sono spine per ogni suono vano
e grandine vivace di novembre

Il santo – Su talentu de su chelu

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Non c’è nube che allontani dal tuo cielo
da questa manna acerba, celeste
dalla migrazione di luce
che la tua tunica sorregge
per la mietitura buona dell’Eterno

Contempli le ferite ad ogni sforzo
perché nessun gesto sia incompiuto
prigioniero di un volere temporaneo
che a tarda sera, chiuse le palpebre
sfiata nei cipressi

Quante croci ti hanno innalzato l’ombra
festosa fra i chiodi sbocciati dall’inverno
e i passeri a sorvegliare il grano sono sacri
sotto la pioggia che inferocisce il fango
per tutto il tempo che i sandali s’inoltrano pazienti

Sei soglia di un altrove senza imbrogli
impronta in un cammino che a stento tira i carri
lucerna per libertà murate
e canti ovunque il poema del bisogno
come se il sospiro d’ogni attesa fosse tuo

E noi che bestie siamo a urlare la pietà
offesi come ceri davanti ai crisantemi
preghiamo che la terra dia i suoi frutti
e mai sappiamo le zolle prosciugate degli altri.
Noi che diamo il perdono a giorni alterni
fuggendo alle condanne come ladri

Premesse d’anima

Michaël Borremans, The Prodigy, 2007.

Vivi queste premesse d’anima
come vertigini a sequenza
e non aver paura di cadere.
Quest’ordine profondo che sovrasta
seppure dovessero sprangare le tue labbra
con la catena più robusta.
Questo abbecedario fatto anche di dolore
senza che il lamento ti sia voce
quando le macerie ti alzeranno.
Questo crollo di fanghiglia dentro agli occhi
anche se dovessi barcollare sulla strada
accecato dalla luce degli astri.

Accresci queste premesse a traboccare
instancabile e disposto come la terra
prima della semina.
Queste premesse d’anima ch’io amo
chiamate anticamente verità
senza che nessuno ti dissuada

Anima

L’anima resta.
Come manna è a notte fonda
l’inginocchiarsi folle delle carni
sbiancate come neve in ogni croce.
Grazia è la sua crosta
luci le sue urne e pianto la sostanza
da unire solo al pane.
Persino nei deserti si abbevera feconda
come una radice gocciolante
alzata sulle fronde. Larghi i rivoli
la inondano ospitali in un accordo
che il cielo guarda altrove.
Il pensiero è una reliquia talvolta
un tralcio battuto dal vento
in preda al suo viaggiare
fra sassi e muri impervi
ma lei rimane, pioggia sì costante
e tessitura ardente
senza viscere né peso
principio e gloria di ogni devozione