In certi istanti, dov’è la sola umanità
a renderci chi siamo
diamo il congedo a tempi lontani
devoti al nostro sangue
e a tutto ciò che resta nel mistero.
Cosa sappiamo dell’innocenza
del corpo arreso sotto la daga
guardando le piaghe degli altri
come rivoli di pioggia noi perforiamo i sassi
prima che la pena sia compiuta
e che la mano tenda il suo conforto.
Sotto il passo le strade sono sorde
scorrono difese mentre il colpo incede, fugaci
come le nubi che partono di sera
quando ciò che è perso non è che una condanna
scritta dalle mani che più amiamo.
Ma gli occhi sono giare nel dolore
si colmano d’amaro fino a traboccare
e ciò che ci soccorre è solo una preghiera
il canto più agguerrito della croce.
Quanto vorrei che il tempo non sfinisse
che un pianto fosse più di una parola
che il vento nel soffiare curasse le mancanze
portandole a un rimedio
che il rosso delle guancie sia simile a una gioia
per regalarla a chi non la comprende
e a chi l’ha allontanata dalla schiena.
Care mi sono le bestie da spavento
e i passeri d’inverno feriti sotto i tetti
perché anche loro sperano l’elisio
gli arbusti cavi e i tubi delle fonti
che mi hanno dissetato
sorelle le ragioni di buone verità
fratelli tutti i cuori
e i semi che sfioriti concimano la terra
dolci e sacre madri tutte le pazienze
ora che aspetto non so cosa
donando ogni perdono
e sento il mio respiro quasi fosse un’ombra
un volo spalancato sulla cima, giungere al finale.
a mia Madre
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